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Con l’espressione disturbi alimentari si fa riferimento ad un’ampia costellazione di possibili patologie, la cui manifestazione sintomatica è da ricercarsi nel rapporto del soggetto che ne è affetto, con il cibo.
Caratterizzati dall’adozione di abitudini alimentari spesso estreme o bizzarre, molto lontane da quelle a cui normalmente si è abituati in assenza di elementi patologici, i disturbi alimentari sono spesso accompagnati da un’eccessiva preoccupazione per il proprio aspetto esteriore, che può riguardare il peso, le forme, le proporzioni. Questo tipo di disordine è più comune nel sesso femminile, e l’insorgenza è spesso da collocarsi nella fase adolescenziale. Un disturbo alimentare più manifestarsi con molti sintomi diversi, che solitamente comportano:
Sebbene questi comportamenti siano sempre presenti nei disturbi alimentari, non è necessariamente detto che una persona che mostri una fra le manifestazioni sopra elencate abbia un disturbo alimentare. L’iter per arrivare alla formulazione di una diagnosi precisa prevede un’attenta analisi delle abitudini del soggetto e del modo in cui esse vanno ad armonizzarsi nella vita del soggetto stesso. L’emissione di una diagnosi che descriva uno o più disturbi alimentari è legata ad alcuni precisi criteri diagnostici descritti nel Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali.
I comportamenti alimentari che meritano attenzione medica tendono a comportare un forte aumento o una forte diminuzione delle quantità di cibo introdotte. In questo articolo, andremo a parlare dei disturbi alimentari in cui il soggetto sia portato ad un consumo compulsivo del cibo, arrivano a volte ad una vera e propria dipendenza.
Ad oggi, il Manuale dei disturbi mentali descrive due distinti disturbi da sovralimentazione: la bulimia ed il binge eating. E’ la sintomatologia a discriminare le due condizioni, con i soggetti bulimici a distinguersi dai pazienti affetti da binge eating per il minor senso di colpa dopo le “abbuffate”.
Sebbene i manuali diagnostici offrano delle accurate descrizioni di diversi sottotipi di disturbi alimentari, in ambito terapeutico è importante cogliere le diverse sfumature che compongono l’esperienza del soggetto, e che in molti casi possono differire dalla descrizione teorica di un disturbo alimentare, anche in presenza di comportamenti degni di attenzione medica.
I problemi con il cibo possono assumere tratti molto differenti da loro, e spesso necessitano di un trattamento anche se non sembrano collimare con alcuna descrizione accademica dei disturbi. Il disturbo alimentare più diffuso, sebbene non ricada in alcun incasellamento specifico, è l’utilizzo del cibo come strumento per cambiare il proprio stato mentale. Al pari di alcune sostanze stupefacenti o bevande alcoliche, anche il cibo può trasformarsi in una vera e propria dipendenza, nel momento in cui il soggetto trova nel consumo di alimenti una via efficace per cambiare il proprio stato mentale.
Per sviluppare abitudini potenzialmente pericolose, non è necessario arrivare a ricalcare la descrizione teorica (e spesso stereotipata) del soggetto affetto da disturbi mentali. E’ possibile sviluppare una dipendenza alimentare anche senza la componente ossessiva: sebbene molti soggetti si ritrovino a pensare sempre al cibo, o a dedicare a al suo reperimento una parte consistente dei propri sforzi, l’assenza di questa ossessione non porta all’esclusione della diagnosi.
I disturbi alimentari possono essere trattati con successo, e nella maggior parte dei casi la giusta terapia può portare ad una completa remissione dei sintomi. Sebbene in molti casi i soggetti con una storia di disturbi alimentari debbano monitorare i propri comportamenti alimentari, è possibile arrivare ad una completa gestione dei sintomi.
In sede terapeutica, gran parte del lavoro viene svolto tramite il confronto continuativo fra il paziente ed il terapeuta. A quest’ultimo spetterà il compito di tracciare gli schemi mentali dietro i comportamenti del paziente, ed individuare convinzioni, valori, fonti di stress e strategie compensative, che nel loro insieme forniscono preziosissimi indizi per inquadrare il disturbo e trattarlo alla radice.
Come detto in precedenza, i disturbi alimentari possono assumere tratti molto diversi fra loro. In sede terapeutica appare funzionale considerare abitudini alimentari squilibrate come un sintomo, per indagare successivamente le cause.
E’ spesso difficile individuare i margini che separano un disturbo mentale dalle abitudini adottate per lenire il proprio disagio psicologico. Nei casi in cui il soggetto mostri un’ossessione per il cibo associata a sintomi depressivi, il terapeuta dovrà considerare la possibilità che la dipendenza alimentare sia una strategia di coping per alleviare la sintomatologia depressiva.
In presenza di sintomi depressivi e di compulsione per il cibo che non rientri in dei precisi criteri diagnostici (bulimia, binge eating), è possibile affiancare alla terapia cognitivo comportamentale un sostegno farmacologico per andare a lavorare sui sintomi depressivi. I farmaci d’elezione sono gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, che andando ad aumentare i livelli di serotonina all’interno del sistema nervoso centrale, vanno ad intervenire sulla sintomatologia depressiva.
Se i disturbi mentali rappresentano un enorme rischio per la salute mentale del paziente, la presenza di uno squilibrio alimentare può mettere a rischio anche l’armonia fisica del paziente. L’ingestione di grandi quantità di cibo per un lasso di tempo prolungato, può non solo favorire l’insorgenza di una lunga lista di patologie rilevanti, come il diabete, l’obesità e l’ipertensione, ma può anche sintetizzare altri in soggetti predisposti.
Il caso di disturbo da sovralimentazione, il pericolo più tangibile rimane quello dell’obesità, condizione precursore di diverse patologie potenzialmente letali, come l’insufficienza cardiaca o renale.
Se in molti casi è consigliabile confrontarsi con un medico prima di cominciare un percorso terapeutico per la risoluzione di disturbi mentali (che possono essere causati o aggravati da carenze alimentari, stati infiammatori, e molto altro), nel caso dei disturbi alimentari risulta necessario lavorare con un team multidisciplinare per monitorare lo stato di salute del paziente durante l’intera durata della terapia.
Di norma, il trattamento dei disturbi alimentari non parte dalla tavola. Poiché la dipendenza da cibo viene considerata come un sintomo, intervenire sul comportamento vorrebbe dire andare a concentrare i propri sforzi sulla componente sintomatica. Questo approccio, rimasto per lungo tempo il più utilizzato, presenta una bassa percentuale di successo, ed in molti casi può rivelarsi addirittura controproducente.
Intervenire sul comportamento non vuol dire solamente trattare il sintomo tralasciando la causa, ma può esporre il soggetto a numerosi tentativi infruttuosi che nel tempo potrebbero scoraggiarlo, portando ad uno stato di sfiducia in merito alle sue possibilità di risolvere la situazione.
Tuttavia, nei casi in cui le abitudini del paziente rappresentino un rischio concreto per la salute del paziente, è bene intervenire in maniera repentina, operando un veloce cambiamento nel comportamento alimentare del paziente. E’ questo il caso dei soggetti gravemente obesi, diabetici o ipertesi. Qualsiasi cambiamento alimentare deve essere introdotto sotto la supervisione di un medico.
Così come per ogni disordine mentale, la maggior parte dei pazienti con disturbo alimentare non riceverà mai una diagnosi né un trattamento appropriato. Sebbene la natura di questi disturbi non sia da considerarsi necessariamente cronica (comportamenti squilibrati possono andare e venire, o presentarsi solamente in situazioni di stress per poi scomparire), accade di frequente che sintomi persistano per un lasso di tempo prolungato.
Se è vero che una percentuale importante, fra chi è affetto da un disturbo alimentare, non si rivolge ad un professionista per elaborare un percorso terapeutico risolutivo, i soggetti che scelgono di rivolgersi ad un medico spesso riferiscono di vari tentativi infruttuosi di gestione della sintomatologia. Specialmente nei casi in cui il disturbo sia incentrato nella dipendenza da cibo, il soggetto può provare ad interrompere, totalmente, o quasi, l’assunzione di ogni alimento.
Sebbene il digiuno possa avere diversi effetti benefici sull’organismo umano, privare il corpo del giusto apporto calorico e dei nutrienti necessari per un periodo di tempo troppo lungo, può avere pesanti ripercussioni sulla salute fisica e mentale. Brevi periodi di digiuno possono considerarsi terapeutici, ma l’interruzione dell’alimentazione non è annoverata fra le terapie da adottarsi nel trattamento dei disturbi alimentari, anche nei casi in cui il soggetto abbia sviluppato una dipendenza da cibo. Una riduzione drastica delle quantità di cibo ingerite può inoltre favorire il deleterio effetto rebound: un veloce ritorno al consumo di grandi quantità di cibo dopo un periodo di controllo dei sintomi.
L’eziologia dei disturbi alimentari è stata tracciata solamente da un punto di vista psicologico. Sebbene molti studi abbiano ipotizzato una componente genetica nello sviluppo delle dipendenze alimentari, ad oggi i dati raccolti non consentono di pronunciarsi con esattezza. Tuttavia, la presenza di un familiare con una storia di disturbi alimentari viene considerato un fattore di rischio.
L’assunzione di psicofarmaci deve essere valutata con il proprio medico curante, così da tracciare un esaustivo profilo dei rischi e dei benefici insiti nella terapia. Nei casi in cui la dipendenza da cibo sia legata ad uno stato depressivo ed il paziente si dimostri resistente alla terapia cognitivo-comportamentale, l’assunzione di psicofarmaci può risultare determinante.
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