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Modificato e recensito medico da THE BALANCE Squadra
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La claustrofobia viene definita come la paura degli spazi stretti. Spiacevole sensazione che può andare da un leggero senso di inquietudine a vere e proprie crisi di panico, la claustrofobia viene spesso scatenata, nei soggetti che ne soffrono, da situazioni tipiche, come l’utilizzo di ascensori, le stanze senza finestre, le camere d’hotel con vetri sigillati, e da situazioni di affollamento (come centri commerciali o cinema). Nei soggetti affetti da claustrofobia grave, la sensazione di disagio può essere provocata anche da abbigliamento aderente, e dall’utilizzo di sciarpe e cappelli.

Diversi studi hanno stimato l’incidenza della claustrofobia fra il 5 ed il 10% della popolazione adulta. Nonostante i risvolti potenzialmente invalidanti di questa condizione, soprattutto nei casi più gravi, solamente una piccola percentuale degli individui affetti da claustrofobia si affida a professionisti dell’igiene mentale per il trattamento della sintomatologia. 

La claustrofobia è classificata come un disturbo mentale e comportamentale, appartenente alla categoria dei disturbi di origine ansiosa. I soggetti claustrofobici tendono a mostrare i primi sintomi nell’infanzia o nella prima adolescenza, molto spesso in modo intermittente e con severità ridotta rispetto alle manifestazioni dell’età adulta. Alla base della condizione claustrofobica vi è generalmente una paura: quella del soffocamento. 

Nei casi più severi, la claustrofobia può avere dei risvolti invalidanti, capaci di interferire con la quotidianità del soggetto. Il soggetto claustrofobico può incontrare difficoltà su base regolare, non solo nel caso di utilizzo di un ascensore o in stanze di ridotte dimensioni, ma anche in altre circostanze:

  • esami strumentali (come Risonanze Magnetiche e TAC)
  • automobili, specie se di dimensioni ridotte e con i finestrini alzati
  • aeroplani 
  • mezzi pubblici (autobus, treni, metropolitana, tram)
  • tunnel e gallerie

A scatenare la sintomatologia claustrofobica è la paura di ritrovarsi nella condizione di non poter respirare. All’aumentare dei livelli di ansia, il soggetto fa esperienza di una serie di sintomi, fra i quali si elencano: 

  • aumento della sudorazione, spesso accompagnato da brividi 
  • aumento del ritmo cardiaco e della pressione sanguigna 
  • confusione, con possibile disturbi del linguaggio 
  • secchezza delle fauci  
  • iperventilazione
  • tremori accompagnati da una sensazione di vuoto allo stomaco 
  • nausea 
  • cefalea

In alcuni soggetti, i sintomi possono essere accompagnati dalla sensazione che le pareti si stringano attorno al soggetto, contribuendo ad alimentare il circolo ansiogeno.

I sintomi della claustrofobia sono una risposta fisica ad una paura psicologica considerata irrazionale non solo dalla letteratura medica, ma anche dai soggetti affetti da questo disturbo. Nonostante abbiano coscienza di non star fronteggiando alcun pericolo reale, le persone affette da claustrofobia non riescono spesso a controllare la propria risposta fisiologica.

L’eziologia del disturbo claustrofobico non è del tutto chiara. Dalle prime descrizioni di questa condizione, sono state avanzate diverse ipotesi tese a dare una spiegazione, totale o parziale, della sintomatologia del disturbo e del perché ne siano affetti solo alcuni soggetti. In era moderna, le chiavi di lettura psicoanalitiche hanno lasciato posto a teorie multifattoriali che individuerebbero nella genetica, nell’anatomia cerebrale e nell’esposizione a traumi la radici della claustrofobia. 

L’amigdala e la paura degli spazi stretti

L’amigdala è una struttura cerebrale di ridotte dimensioni, che svolge un ruolo fondamentale nella gestione della paura e nelle risposte di “fight-or-flight”. Uno studio condotto da Fumi Hayano, sembra suggerire che i pazienti affetti da disturbi da panico abbiano un’amidgala destra di dimensioni ridotte rispetto alla media, potenzialmente alla base delle risposte anormali dei pazienti claustrofobici ad ambienti ritenuti confinanti.  

La claustrofobia come risposta ad un trauma

Ma le radici della claustrofobia non sono da ricercarsi solamente nella struttura cerebrale dei soggetti affetti da questo disturbo. Secondo diversi studi, la maggior parte dei pazienti claustrofobici avrebbe sviluppato il disturbo  in seguito all’esposizione a una o più esperienze traumatiche vissute nel corso della propria infanzia, tra cui:

  • ritrovarsi in una stanza buia senza riuscire ad uscirne o ad accendere la luce 
  • essere rinchiusi in una scatola o in un armadio 
  • cadere in piscina prima di avere imparato a nuotare 
  • separarsi involontariamente dai propri genitori in un luogo affollato 
  • rimanere incastrati nell’inferriata di un cancello
  • essere lasciati soli in auto per lunghi periodi di tempo

In ogni caso, è bene ricordare che la claustrofobia può insorgere anche a seguito di eventi traumatici vissuti nell’età adulta. 

Claustrofobia e percezione dello spazio

In psicologia, ci si riferisce allo spazio interpersonale come alla “zona di protezione e sicurezza mantenuta intorno al proprio corpo durante le interazioni sociali, la cui violazione provoca disagio”. Nella discussione sull’eziologia del disturbo claustrofobico, viene spesso avanzata l’ipotesi secondo cui i pazienti affetti da questo disturbo avrebbe difficoltà nella percezione dello spazio attorno a sé, andando costantemente a sottostimare le distanze che li separano da oggetti e persone e facendo esperienza di una continua “aggressione sensoriale” data dagli input esterni.

In sede diagnostica, il terapeuta si confronterà con il paziente per raccogliere le informazioni necessarie all’inquadramento del disturbo del paziente e al suo incasellamento in una definizione diagnostica. 

In presenza del sospetto di claustrofobia, il professionista chiederà  una descrizione dei sintomi, dei meccanismi d’insorgenza e della loro durata, per andare successivamente ad escludere altri disturbi psicologici potenzialmente simili (come l’agorafobia o il disturbo d’ansia generalizzata). 

Il Manuale Statistico e Diagnostico dei Disturbi Mentali descrive la claustrofobia come una fobia specifica, per la cui diagnosi è necessario il soddisfacimenti di alcuni criteri diagnostici:

  • La paura deve essere irragionevole, persistente, e la sua insorgenza legata ad una situazione precisa. 
  • Deve essere presente ansia anticipatoria: il soggetto ha paura di ciò che potrebbe succedere se si trovasse in una determinata situazione. 
  • L’esposizione allo stimolo provoca con regolarità la stessa risposta ansiosa. Nel soggetto adulto, può manifestarsi sotto forma di forte attacco di ansia o di panico, mentre nel bambino crisi di pianto. 
  • Negli adulti, è presente la consapevolezza dell’irrazionalità della propria paura. In caso contrario, il terapeuta può sondare l’ipotesi di un disturbo psicotico. 
  • Il soggetto adotta strategie volte ad evitare la situazione ansiogena, ed approccia nuove esperienze con angoscia. 
  • La condizione interferisce con la quotidianità del soggetto, con la sua sfera personale e nelle relazioni interpersonali.

La diagnosi differenziale

Il disturbo claustrofobico non va confuso con condizioni che presentano tratti in comune con esso. Una prima, utile distinzione, è quella fra claustrofobia ed agorafobia. Se il soggetto claustrofobico ha paura di spazi stretti per via del timore irrazionale di non riuscire a respirare, chi soffre di agorafobia rivolge la propria paura verso gli spazi aperti, che tende ad evitare. La claustrofobia non va inoltre confusa con i tradizionali disturbi ansiogeni, per via della natura anticipatoria e situazionale del disturbo: a differenza del soggetto affetto da disturbo di ansia generalizzata, la persona claustrofobica si ritrova a provare ansia solamente in determinate situazioni. 

La claustrofobia è un disturbo generalmente trattabile. Nonostante l’impatto potenzialmente invalidante nella vita del soggetto, la sintomatologia della condizione può essere ridotta in tempi relativamente rapidi, una volta cominciato il percorso terapeutico con un professionista. 

I fattori che influenzano l’esito della terapia sono molteplici. In sede terapeutica, è importate descrivere al professionista la propria condizione non omettendo alcun dettaglio (spesso per paura o vergogna), avere fiducia nelle indicazioni del professionista, ed essere disposti ad affrontare situazioni potenzialmente spiacevoli per desensibilizzarsi agli stimoli ansiogeni. 

Al momento della stesura dell’articolo, gli strumenti terapeutici più utilizzati nel trattamento del disturbo claustrofobico sono i seguenti. 

Terapia Cognitivo-Comportamentale

La terapia cognitivo comportamentale è universalmente accettata come strumento terapeutico per il trattamento dei disturbi d’ansia. Questa forma di terapia si dimostra efficace non solo nel trattamento dei disturbi d’ansia tradizionali, ovvero provocati da una specifica situazione, ma anche quelli “anticipatori”, in cui la sensazione di disagio è legata alla paura di ciò che potrebbe accadere in una determinata situazione. La terapia cognitiva si prefigge come obiettivo l’individuazione e la ristrutturazione di pattern cognitivi distorti e luoghi comuni associati alla situazione che genera paura nel soggetto. 

Nei pazienti claustrofobici, la terapia mira non solo a limare le interpretazioni negative che vengono date in una determinata situazione, ma anche a fornirne di positive, andando quindi a lavorare su più fronti. Ad esempio, nel lavorare con un paziente che abbia paura di entrare in ascensore, il terapeuta interverrà non solo sulle convinzioni legate alla possibilità di soffocare, ma anche sottolineando gli aspetti utili dell’esperienza (spostarsi più velocemente da un piano all’altro). 

Esposizione dal vivo 

Una delle strategie di più vecchia data per il trattamento della claustrofobia, è l’esposizione del soggetto a situazioni che normalmente portano alla manifestazione di forti stati ansiosi. Solitamente, questa tecnica prevede che il paziente si confronti con situazioni via via più complesse, in modo da propiziare una graduale desensibilizzazione agli stimoli claustrofobici. 

Il terapeuta può ad esempio chiedere al paziente di restare pochi minuti in una stanza senza finestre, e successivamente in ripostiglio, un ascensore, o una macchina per la risonanza magnetica. Diversi studi hanno evidenziato l’efficacia di questa strategia nella riduzione della severità della claustrofobia. Secondo S.J. Rachman, la desensibilizzazione graduale tramite esposizione ripetuta sarebbe nettamente la strategie più efficace nel trattamento della claustrofobia.

Farmaci 

Gli psicofarmaci non sono considerati la terapia d’elezione per il trattamento della condizione claustrofobica. Sebbene alcuni studi suggeriscano una potenziale riduzione della sintomatologia nei pazienti trattati con antidepressivi ed ansiolitici, l’efficacia di questi composti nella cura della claustrofobia rimane controversa. 

Nei casi più gravi, il terapeuta può suggerire l’adozione di una terapia medica che comprenda farmaci betabloccanti, per modulare la pressione sanguigna, andando a stabilizzarla e abbassando il ritmo cardiaco. In questo modo, il soggetto claustrofobico può interrompere il circolo ansiogeno generato dal feedback dato dai sintomi fisici legati all’ansia.

EMDR

Come abbiamo visto, l’insorgenza della claustrofobia è spesso collegata ad un evento traumatico, che nella maggior parte dei casi viene vissuto in età infantile. Nel caso in cui il soggetto riesca ad isolare uno o una serie di eventi stressanti che identifichi come causa dei propri disturbi, il terapeuta può andare a lavorare sul trauma in maniera diretta favorendo la sua metabolizzazione e alleviando la sintomatologia. In ambito terapeutico, l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing si è dimostrato uno strumento molto efficace nel trattamento dei disturbi indotti da eventi traumatici. Nel trattare un paziente con EMDR, il terapeuta indicherà al soggetto di richiamare alla memoria l’evento traumatico, e allo stesso tempo di seguire con gli occhi delle precise traiettorie, che il professionista disegnerà con un oggetto. Andando a ricreare artificiosamente le stesse traiettorie che solitamente si osservano nella fase REM del sonno, il terapeuta stimolerà l’attivazione della stesse aree cerebrali, favorendo una nuova metabolizzazione del trauma. 

Training autogeno

Le tecniche di rilassamento possono avere un impatto positivo sul decorso della condizione e favorire la gestione, riduzione ed eliminazione della sintomatologia. Gli esercizi di rilassamento possono essere praticati in ambito terapeutico e consigliati dal terapeuta sia a scopo preventivo (e quindi evitare la comparsa dei sintomi), oppure palliativo, intervenendo quando i sintomi si sono già manifestati per ridurne l’intensità e favorirne la scomparsa. Fra le tecniche di rilassamento più comuni, gli esercizi di rilassamento vengono considerati i più efficaci. Sebbene ne esistano di diverso tipo, il comune denominatore è l’attenzione rivolta sul proprio respiro, che si farà via via più regolare andando a normalizzare o addirittura rallentare il battito cardiaco. Il terapeuta può consigliare al paziente claustrofobico diverse strategie di prevenzione e gestione della sintomatologia, per trovare quelle più efficaci nel caso specifico. Un’altra tipologia di esercizi molto efficaci, è quella delle tecniche di visualizzazione, che spostano l’attenzione del soggetto dai pensieri ansiogeni a costrutti mentali più rilassanti. 

Nel corso dell’articolo abbiamo già accennato alla possibilità di guarire dalla claustrofobia. A differenza di alcuni specifici disturbi della sfera psicologica, di fronte ai quali il terapeuta mira a raggiungere insieme al paziente un’efficace riduzione e gestione della sintomatologia, la claustrofobia può essere guarita completamente. Anche nei soggetti particolarmente resistenti ai tentativi di intervento terapeutico, solitamente è possibile arrivare ad una marcatissima riduzione dei sintomi e alla loro gestione anche in situazioni che prima della terapia si sarebbero rivelate di difficile gestione. 

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