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Espressione utilizzata per indicare un consumo smodato di cibo, spesso con gravi ripercussioni sulla salute dell’individuo, il binge eating è un condizione psicopatologica che rientra nella sfera dei Disturbi Alimentari, con serie ripercussioni sulla vita di chi ne è affetto.

Anche conosciuto con il nome di Disturbo da Alimentazione Incontrollata, il binge eating è una condizione caratterizzata dal regolare consumo di grandi quantità di cibo in un lasso di tempo relativamente contenuto, accompagnato da un forte senso di vergogna per le proprie abitudini alimentari e dall’ossessione per il proprio aspetto fisico. 

L’eziologia del disturbo non è ancora chiara. Fattori di rischio che aumenterebbero la probabilità d’insorgenza del disturbo sarebbero la presenza di disturbi depressivi o ansiosi in almeno un genitore, e uno o entrambi i genitori in sovrappeso. Come per gli altri disturbi alimentari, anche per il binge eating si ipotizza una concomitanza di diverse componenti, fra cui fattori genetici, neuroendocrini, affettivi e sociali. I soggetti affetti da depressione hanno una maggior probabilità di sviluppare, nel corso della loro vita, un disturbo dell’alimentazione. 

Al fine di poter formulare una diagnosi di binge eating disorder, il curante deve ravvisare nel paziente alcuni determinati tratti comportamentali, che devono soddisfare specifici criteri diagnostici. All’esame oggettivo, è necessaria la presenza di ripetuti episodi di “abbuffate”, accompagnate ad un numero minimo di tre fra i seguenti sintomi: 

  • consumare cibo più rapidamente del normale, e in quantità insolitamente abbondanti (maggiori di quanto solitamente si consumerebbe in circostanze simili); 
  • consumare cibo fino ad accusare un senso di pesantezza; ricorrere al consumo di cibo anche in assenza di appetito; 
  • preferire il consumo di cibi in solitudine (per lenire il senso di vergogna);
  • provare senso di colpa a seguito degli episodi di binge eating, spesso associati a depressione;
  • evitare di mangiare se in presenza in altre persone;
  • consumare cibo anche in assenza di uno stimolo reale (fame, appetito).

In sede terapeutica, il soggetto affetto da binge eating può riferiredi  un senso di impotenza e mancanza di controllo sulle proprie abitudini alimentari. Nei casi più gravi di disturbo da alimentazione incontrollata, il paziente può arrivare a riorganizzare la propria quotidianità per trovare il tempo da dedicare a sedute di binge eating. 

Il binge eating è uno dei disturbi alimentari più diffusi. Si ritiene che nei paesi sviluppati i soggetti affetti da questa condizioni superino di tre volte il totale delle diagnosi di bulimia e anoressia. Uno studio del 2007 condotto dal National Eating Disorder Organization su 9,282 soggetti, ha rivelato che circa il 3,5% delle donne e il 2% degli uomini avevano sofferto di binge eating nel corso della propria vita. L’incidenza di questo disturbo alimentare è particolarmente spiccata negli atleti, soprattutto di sesso femminile. 

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Il tasso d’incidenza mostra una marcata correlazione con il grado di sovrappeso, e i soggetti in stato di obesità presentano un’incidenza più alta del disturbo rispetto alla popolazione generale. Sebbene il binge eating venga spesso confuso con un altro disturbo alimentare caratterizzato dalla propensione a consumare grandi quantità di cibo, la bulimia, il soggetto bulimico si differenza da chi soffre di disturbo da alimentazione incontrollata per via dell’attuazione di comportamenti “compensatori”, atti a contrastare gli effetti deleteri della sovralimentazione. A differenza del paziente affetto da binge eating, il soggetto bulimico tenta di compensare le sue abitudini alimentari con periodi di digiuno, utilizzo di diuretici, inducendo il vomito dopo un’abbuffata, o attraverso intense sedute di esercizio fisico.

Il disturbo solitamente insorge fra i 20 ed i 40 anni, ma episodi di consumo smodato di cibo non legati a stati di particolare appetito possono verificarsi anche in giovanissima età.

Nel trattamento dei disturbi alimentari, l’intervento tempestivo gioca un ruolo spesso fondamentale: interrompere l’adozione di abitudini alimentari patologiche nella fase iniziale aumenta sensibilmente l’efficacia degli sforzi terapeutici, intesi non solo come correzione dei comportamenti ma come prevenzione di future ricadute.

Davanti al sospetto che una persona cara possa aver sviluppato un disturbo alimentare, possiamo cercare alcuni segni rivelatori che accomunano i soggetti affetti da binge eating.

Fra questi campanelli d’allarme possiamo trovare:

  • aumento ponderale non proporzionato alle quantità di cibo ingerite;
  • elementi oggettivi che potrebbero ricondurre al binge eating, come la scomparsa di grandi quantità di cibo in un lasso di tempo relativamente breve;
  • paura di consumare pasti in compagnia di altre persone;
  • frequenti spuntini lontano dai pasti;
  • tendenza all’isolamento sociale;
  • sviluppo di tratti depressivi e ansiosi;
  • continua ricerca di rassicurazioni sul proprio aspetto fisico.

In generale, qualsiasi cambiamento palese delle abitudini alimentari non legato a chiare necessità (es. diagnosi di allergie o intolleranze), dovrebbe sempre essere posto all’attenzione di un medico. 

I disturbi alimentari possono essere trattati con gradi diversi di successo, a seconda di molti fattori come lo stato di salute del paziente, la gravità della sintomatologia, l’età d’insorgenza del disturbo. Generalmente, gli sforzi terapeutici risultano tanto più efficaci quanto più si rivelano tempestivi: è importante, laddove possibile, intervenire precocemente per evitare (oltre ai deleteri effetti sulla salute fisica dell’individuo), l’adozione ripetuta delle abitudini e l’identificazione del soggetto con la propria condizione. 

Un corretto inquadramento diagnostico del binge eating risulta cruciale ai fini di un’efficiente riuscita terapeutica. Di fronte ad un paziente affetto da un disturbo da sovralimentazione incontrollata, il curante dovrà cercare di ricavare il maggior numero di informazioni possibile sullo stato di salute mentale del paziente e sulle sue abitudini. Fra gli elementi diagnostici più significativi, troviamo: 

  • Durata: da quanto tempo è presente il disturbo?
  • Ricorrenza: il disturbo ha carattere cronico o si presenta saltuariamente?
  • Gravità: quali quantità di cibo il paziente è solito consumare?

In sede terapeutica sarà fondamentale indagare il rapporto fra le abitudini alimentari del paziente e la sua quotidianità, per capire se esse interferiscano o meno con lo svolgimento delle normali attività quotidiane. In tal senso, il curante può sincerarsi dello stato di salute delle relazioni dell’individuo (amorose, familiari, sociali), della sua vita lavorativa, sottoporre il paziente a test specifici per quantificare il suo grado di soddisfazione generale. 

Il primo passo nel trattamento del disturbo da alimentazione incontrollata è l’interruzione delle abitudini alimentari del soggetto, seguita dalla rieducazione delle stesse. E’ importante che la fase di transizione dalla sovralimentazione a delle abitudini sane ed equilibrate avvenga in modo graduale, senza una brusca riduzione delle quantità di cibo assunto o diete drastiche, che a fronte di un temporaneo miglioramento potrebbe comportare severe ricadute in un secondo momento (effetto rebound).

Le abitudini caratteristiche del binge eating, difficilmente si accompagnano ad una forte autostima ed un’immagine di sé positiva. I pazienti che convivono con il disturbo da alimentazione incontrollata tendono a presentare una scarsa stima di sé, un tono umorale spesso altalenante con tendenze depressive (a volte accompagnate all’ansia), ed una marcata preoccupazione per il proprio aspetto fisico. E’ proprio l’ossessione per la propria immagine corporea a scatenare l’instaurarsi di pericolosi circoli viziosi, nei quali spesso si alternano periodi di sovralimentazione (con conseguente aumento ponderale) a lunghi intervalli in cui le quantità di cibo vengono ridotte.

Obiettivo del percorso terapeutico non è solo la rieducazione alimentare del soggetto, ma anche la prevenzione di ricadute future che potrebbero vanificare gli sforzi del paziente, spesso portando all’instaurarsi di una maggiore resistenza al cambiamento (proprio a causa della convinzione di non poter risolvere la situazione). 

Se in un primo momento lo sforzo consapevole del soggetto può portare ad un miglioramento della situazione, questo primo step è puramente sintomatico, e si basa interamente sulla volontà del soggetto. Per il mantenimento di abitudini alimentari equilibrate è necessario individuare e correggere le cause scatenanti del disturbo.

Il disturbo da alimentazione incontrollata può essere considerato il sintomo di un disagio psicologico (solitamente depressivo o ansioso) legato al disequilibrio di una o più aree della vita del soggetto (personale, relazionale, lavorativa), che spinge chi ne soffre a cercare rifugio nel cibo. 

Particolarmente importante risulta, in questo senso, la modalità d’insorgenza del disturbo. Se al momento della raccolta delle prime informazioni, il soggetto racconta di un episodio particolarmente significativo verificatosi poco prima dell’insorgenza della sintomatologia, il medico dovrà sondare un possibile nesso causale, indagando su quale significato il soggetto abbia dato all’avvenimento specifico. 

Asse portante del percorso terapeutico, è un continuo dialogo con il curante, che attraverso un’attenta analisi dovrà individuare il rapporto fra le convinzioni e i valori del paziente e i suoi comportamenti. In fase terapeutica appare funzionale considerare il binge eating come un sintomo, e tentare di procedere a ritroso per individuare le cause scatenanti. Quali sono le convinzioni del paziente su sé stesso? In che modo i trascorsi in età infantile hanno modellato la sua identità? Quali sono le sue priorità? Qual è il suo grado di fiducia nella possibilità di soddisfarle? Sono presenti elementi di disagio all’interno della sua vita? 

I disturbi alimentari tendono a celare gravi difficoltà psicologiche del paziente che ne è affetto. Non è insolito che i soggetti rispondano positivamente alla terapia anche senza che essa sia incentrata sul rapporto del soggetto con il cibo. Delusioni relazionali e lavorative, senso di inadeguatezza, traumi infantili irrisolti e rapporti tumultuosi con la propria immagine, possono creare un terreno fertile per l’insorgenza di una lunga lista di manifestazioni patologiche. 

Nei soggetti particolarmente resistenti all’approccio cognitivo comportamentale, o nei casi in cui il curante reputi che lo stato mentale del paziente rappresenti una minaccia per la sua stessa incolumità, è possibile affiancare gli sforzi terapeutici ad un sostegno farmacologico. A seconda della diagnosi, il terapeuta potrà indicare il farmaco d’elezione, solitamente un antidepressivo, un ansiolitico, o una combinazione dei due. I farmaci più utilizzati sono solitamente rappresentati da Inibitori Selettivi della Ricaptazione della Serotonina e benzodiazepine, ma nei casi più seri di binge eating il curante può introdurre altri composti approvati per il trattamento di questo disturbo, come il Topamax (anticonvulsivante) o Vyvanse (solitamente impiegato nella terapia per l’ADHD). 

La durata del trattamento farmacologico presenta un’enorme variabilità: mentre per alcuni soggetti può essere sufficiente un periodo di poche settimane o mesi, la somministrazione a lungo termine non è da escludersi nei casi in cui il paziente non riesca a trovare una strategia alternativa per far fronte agli episodi depressivi o ansiosi. 

Caratteristica che accomuna un’alta percentuale dei soggetti affetti da disturbi dell’alimentazione, è la reticenza a cercare aiuto presso strutture mediche qualificate. A propiziare questo rifiuto è solitamente il diniego della condizione, e la vergogna scaturita dalle proprie abitudini alimentari, che si preferisce conservare nel privato piuttosto che condividerle con un professionista. 

Così come per la maggior parte dei disturbi psichiatrici, una considerevole porzione di chi ne è affetto è restio a cercare aiuto presso figure professionali, preferendo la gestione dei sintomi.

Il soggetto affetto da binge eating che sceglie la strada dell’automedicazione, può adottare una serie di strategie per il contenimento dei sintomi, che possono andare da semplici esercizi di respirazione e meditazione fino all’auto somministrazione di farmaci antidepressivi e ansiolitici. Tuttavia, sebbene il paziente possa arrivare ad alleviare con successo la sintomatologia, l’adozione di strategie fai-da-te può portare a dei risultati parziali, con una riduzione temporanea delle compulsioni alimentari a cui solitamente fa seguito un ritorno alle vecchie e deleterie abitudini. Il conseguente circolo vizioso rischia di ridurre considerevolmente le possibilità del soggetto di trovare una via d’uscita definitiva dalla sua problematica, poiché ogni ricaduta rafforza, nella mente del paziente, la convinzione di non avere un reale controllo sulla sua condizione. 

Al fine di riequilibrare le proprie abitudini alimentari e liberarsi definitivamente della compulsione verso il cibo, è consigliabile affiancarsi ad un professionista qualificato, possibilmente esperto nel campo dei disturbi alimentari. 

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